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76// Pace, in marcia tra gli invisibili
Arrivare in Israele e Palestina per la prima volta dopo anni di letture – cronaca, saggistica, romanzi d’autore - è uno shock. Ma non – o non solo - per quello che si sarebbe tentati di immaginare. E cioè essere testimoni della violenza e della sofferenza di due popoli, che da più di sessantanni convivono da nemici. Lo shock più forte è lo svuotamento di senso delle parole. In Medio Oriente, anzi in Terra Santa, parole come Pace, Speranza, Dialogo, per anni corollario di quel conflitto, paradigmatico dell’incapacità umana di vivere fianco a fianco, sono tabù. E, poche ore di ascolto, qualche incontro fuor di diplomazia, occhi e mente disponibili alla verità rendono chiaro il perché: oggi in quei popoli prevale la sfiducia, anzi la disillusione. Quella vera. Quella che sa di sconfitta degli ideali, della giustizia, dei diritti. E di sogno spezzato. Se non fosse irriverente l’accostamento, direi che somiglia allo svuotamento che hanno subito in casa nostra le parole Democrazia, Etica, Politica. In quella terra contesa e adorata, malata di una nuova forma di apartheid, si respira rassegnazione, resilienza, impotenza. Ma mentre qualcuno – forse la maggioranza - trasforma ancora in odio e desiderio di vendetta i tanti anni di occupazione e di terrore, altri – e a noi sono sembrati i più convincenti – stanno facendo un cammino diverso, antico ma nuovo, difficile da comprendere ma intrigante per le persone di buona volontà. I 400 marciatori di ottobre, quelli di Time for Responsibilities, macinando chilometri tra uliveti e bypass road, in villaggi palestinesi e città israeliane, attraverso check point e luoghi sacri delle tre grandi religioni monoteiste, hanno incontrato questi altri, persone meravigliose, impegnate in un progetto che ben ne declina l’umanità: essi stanno faticosamente costruendo un dono per il futuro della loro terra, dei loro figli, di noi tutti. E ci hanno chiesto aiuto. In cambio offrono la visione di una prospettiva diversa che, libera da pregiudizi, poggi sulla realtà: essere umani di fronte ad altri esseri umani che non hanno più contatto con la possibilità di una vita normale e non guardano all’altro come ad una persona. Stanno, quelle persone, creando i presupposti affinché i due popoli si conoscano e riconoscano, si parlino, incontrino e diano spazio alla reciproca paura, trovando la forza per tradurla in perdono e riconciliazione. Dice Robi che i soldati vanno in guerra senza conoscere il nemico, che gli adolescenti israeliani non hanno mai frequentato un ragazzo palestinese. Lei, membro di Parents’ Circle è una delle voci più lucide di quella parte di società civile israeliana impegnata nella ricostruzione di un tessuto sociale. La politica ha fallito più volte e non ci sono segnali nuovi: la gente deve costruire propri percorsi di tolleranza perché le ferite più profonde non saranno cancellate dagli accordi “nessuna terra può sostituire il sorriso di un figlio”. Il figlio di Robi è stato ucciso, con altri 8 commilitoni, da un cecchino palestinese. “Siamo forti finché un giorno bussano alla porta…il poi è una famiglia distrutta”. Ma Robi ha scritto ai genitori dell’assassino – nel frattempo incarcerato e considerato un eroe tra i suoi – “so che vostro figlio non ha ucciso David perché era David; se lo avesse conosciuto non lo avrebbe mai fatto”. E se può farlo Robi, ci chiediamo tutti, perché non gli altri? Ali, anche lui membro di Parents’ Circle è un ex-combattente palestinese che ha scelto di abbandonare le armi e, dopo anni di carcere suoi, di sua madre, dopo essere stato ferito dai soldati israeliani e aver assistito all’assassinio di suo fratello a un check point “solo perché palestinese” dice, si è convinto che la strada sia quella della cittadinanza attiva e responsabile, della rivendicazione nonviolenta di libertà per i palestinesi e sicurezza per gli israeliani “perché la nonviolenza confonde il nemico; è difficile uccidere qualcuno che conosci e che non oppone resistenza”. Libertà di circolare nella terra degli avi per lavoro, per diletto, per amore. Un amore forte e tangibile: in ogni villaggio palestinese il poliziotto che smista il traffico o il ragazzo che esce da scuola, ti dicono “Welcome to Palestine” con un sorriso accogliente. Per loro la Palestina esiste già. Anche gli israeliani amano quella terra, ereditata da accordi politico-diplomatici, ma sono impegnati a conquistare militarmente il proprio diritto ad espandersi. E la geografia degli insediamenti dei coloni, che invadono coi loro tetti rossi le colline intorno ai villaggi della Cisgiordania portando con sé i derivati della politica di difesa e sicurezza, la malvagità con cui vengono distrutte le abitazioni degli arabi e impedite con machiavelliche e infinite procedure le ricostruzioni – Kafka è vivo e lavora per l’amministrazione pubblica, recita un manifesto alla parete della casa di Salim e Arabica, distrutta 5 volte dai soldati – gli impedimenti pretestuosi alla circolazione dei palestinesi, complice il muro, tutto ciò ci dice Galit, una ragazza israeliana che lavora per Icahd, è diventato un business per molti, troppi. Il business dell’occupazione. Contro questo bisogna lottare ed è questo che “dovete chiedere all’Europa, ai vostri governi. Non condizioni per la pace, che non può essere un’elemosina, ma un’autentica ricostruzione politico-sociale lontana dalle conferenze blasonate e ridondanti”.
No agli aiuti incondizionati, fermezza nel chiedere il rispetto delle risoluzioni Onu che ristabiliscono i diritti dei palestinesi, confini certi e duraturi, stop alla chiusura di Gaza. Cioè come dire che la società civile si sta adoperando per analizzare le ferite sociali, familiari e dar loro un posto, un peso. Ma solo la certezza del diritto e la giustizia possono far incontrare le strade per ora parallele di politica e società. La marcia è iniziata così, al fianco di persone che accettano il nostro aiuto, purché sia nel solco di queste nuove verità.
Uscito sulla rivista Valori
Per contatti e informazioni di seguito alcuni siti di associazioni:
www.theparentscircle.org – famiglie colpite da lutti che promuovono riconciliazione e tolleranza
www.icahd.org – comitato israeliano contro la demolizione delle case
www.combatantsforpeace.org – ex-combattenti israeliani e palestinesi uniti per metter fine alle violenze
www.othervoice.org – per interrompere il ciclo infinito della vendetta
www.machsomwatch.org – pacifiste israeliane che monitorano i check point e denunciano gli abusi che lì avvengono
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